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ORWELL 1984
(1984)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 4 aprile 1985
 
di Michael Radford, con John Hurt, Richard Burton, Suzanna Hamilton (Gran Bretagna, 1984)
 
Opera seconda di un regista inglese rivelatosi a Cannes nel 1983 con l'interessante Another time, another place, ORWELL 1984 aveva infiniti motivi per essere atteso con curiosità. Innanzitutto l'opera letteraria dalla quale il film è tratto, quel romanzo di anticipazione politica scritto nel 1948 da George Orwell, altrettanto vicino alla scomparsa di Hitler che all'ascesa di Stalin - per non citare che i due poli più ovvi di quel totalitarismo sul quale l'opera riflette - e che oggi ha perso ogni carattere futuribile.

Il film, infatti, e non per coincidenza, esce esattamente in quel 1984 nel quale Orwell aveva ambientato la sua impossibile storia d'amore fra Winston e Julia, sotto l'ambigua paternità di O'Brien e l'occhio implacabile del dittatore Big Brother. Per volontà della vedova dello scrittore (che ha fatto addirittura distruggere una prima edizione cinematografica del libro, firmata nel 1955 da Michael Anderson) questo adattamento doveva essere praticamente alla lettera. E Radford si è adeguato.

Radford ha molto talento (che abbia del genio, e del genio un aspetto dei più esaltanti, la follia, è un altro discorso), e ORWELL 1984 riflette, ad ogni istante, questo talento. In breve, tutto l'aspetto plastico del film. Degli esempi: la scelta dell'ambiente (girato "oggi" nella medesima Londra bombardata di allora), l'universo fin troppo sfruttato del cinema della rovina industriale, marcia e decomposta, privata di luce e claustrofobica. La scelta degli oggetti: telefoni a cornetta e locomotive a vapore, ma anche video giganteschi e computer primitivi. Sapientemente, l'avvenire decomposto di questo 1984 che noi viviamo ma che ripensiamo in forme immaginate nel 1948, viene costantemente riconsiderato temporalmente dagli oggetti mostrati nel film. Oggetti di una tecnologia futuribile ma ormai decrepita: una rimessa in questione, altrettanto inquietante del tema stesso del romanzo sulla nozione di immaginazione e di realtà. Poiché noi, poco meno di 40 anni dopo, sappiamo che, come si usa dire, la realtà ha superato nell'orrore l'immaginazione.

Radford, si diceva, ha molto talento: guardate come usa le immagini dei documentari di guerra, che costantemente vengono propinati agli sventurati personaggi del film. Come la nozione di quotidianità della guerra, di futilità della guerra, di verbosità della guerra, di strumentalizzazione della guerra risulti evidente da quell'uso delle immagini. O come ha scelto gli attori: John Hurt scavato da tutti gli orrori, cosciente di conoscere e di dubitare. Richard Burton, qui al suo ultimo ruolo, abilissimo nel rendere l'ambiguo miscuglio tra una rozza ferocia ed una raffinata intelligenza (anche se il suo ruolo di padre-padrone che un rapporto sottile di amore-odio unisce alla vittima risulta assai ridimensionato nel film). E la splendida Suzanna Hamilton, al tempo stesso pura e perversa, esordiente sugli schermi con una presenza indimenticabile. E ancora, e soprattutto: quel modo incredibile e personalissimo di spogliare i propri personaggi, di rendere tutta l'indecenza di una carne esposta senza pietà in un mondo privato del diritto al desiderio per non parlare dell'amore, rimane impresso nella memoria visiva dello spettatore.

Ma perché, allora, ORWELL 1984 finisce per lasciarci piuttosto indifferenti, un pizzico annoiati, e con un'impressione deludente di déjà vu? Probabilmente perché se tutta l'attenzione dell'autore è andata all'aspetto visivo del film (tanto che nella sua sapienza finisce anche questo col cadere in un certo qual accademismo) non altrettanto si può dire per la costruzione drammatica del medesimo. Il protagonista (poiché è ben di lui, vero asse portante dell'opera che bisogna parlare) è visto mirabilmente, ma mai spiegato. Nel suo personaggio non entriamo psicologicamente. E nel suo modo di agire, per assenza di una progressione drammatica, stentiamo a partecipare. Così il film finisce per essere una sapiente illustrazione, un esercizio di stile scrupoloso, un'invocazione non solo legittima ma anche accorata, un'operazione colta e dignitosa. Ma che, a furia di dignità e rispetto fatica a volare di ali sue.


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